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L'importanza di una formazione continua
Possiamo immaginare di non apprendere più nulla? Cosa accadrebbe? Cosa muove l'essere umano alla conoscenza?
FORMAZIONEFORMAZIONE PERMANENTE
Keren Ponzo
8/8/20252 min read


«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere»: così si apre la Metafisica di Aristotele (Metaph. I,1, 980a). Una frase semplice, ma radicale. Non impariamo per obbligo, né per convenienza: impariamo perché, in qualche modo, desideriamo capire. È una spinta originaria, un'inquietudine che ci muove fin dall’inizio.
La formazione, se non si riduce a tecnica o addestramento, risponde proprio a questa tensione. Non si tratta solo di aggiornarsi, di stare al passo, di accumulare titoli. La formazione continua nasce da un desiderio più profondo: comprendere meglio il mondo, leggere con più lucidità ciò che accade, trovare parole nuove per raccontare ciò che si vive.
Platone, nel Simposio, aveva già indicato questa via, quando descrive il desiderio (érōs) come ciò che ci muove verso il sapere, perché percepiamo in noi una mancanza. Il sapere, dunque, non è possesso, ma cammino, apertura, movimento.
C’è un momento, in ogni percorso, in cui si sente che quello che si sa non basta più. È lì che comincia la formazione continua. Quando ciò che facevamo in automatico ci appare improvvisamente opaco, quando ciò che dicevamo per abitudine ci suona vuoto. Quando ci rendiamo conto che, se vogliamo continuare a essere fedeli a quello che siamo, dobbiamo anche essere disposti a cambiare.
Socrate, nel suo continuo interrogare, ci ha insegnato che sapere è, prima di tutto, saper di non sapere (Apologia di Socrate). La formazione è questo: un esercizio di onestà, una disponibilità a rimettere in discussione ciò che sembrava certo.
Formarsi non è solo una questione professionale. È una forma di attenzione, una cura verso ciò che si diventa ogni giorno. Significa non dare per scontato il proprio ruolo, la propria identità, la propria parola. È un atto di responsabilità: verso sé, verso gli altri, verso il tempo che abitiamo.
Foucault, nelle sue ultime lezioni al Collège de France, ha ripreso l’antica pratica della cura di sé (epimeleia heautou), intesa non come individualismo, ma come esercizio etico, come forma concreta di libertà che passa attraverso il sapere e la trasformazione.
(cfr. M. Foucault, "L’herméneutique du sujet", 2001)
Dewey, nella sua pedagogia dell’esperienza, ci ricorda che l’educazione è “ricostruzione continua dell’esperienza”. Non qualcosa che si fa una volta per tutte, ma un processo che si rinnova ogni volta che si incontra il reale.
(cfr. J. Dewey, "Democracy and Education", 1916)
E non è mai troppo tardi per riprendere in mano un libro, iniziare un corso, rimettersi in gioco. Anzi, è proprio quando pensiamo di aver finito di imparare che la vita ci chiede di ricominciare. Perché si può studiare a vent’anni, certo. Ma si può imparare profondamente, forse solo, quando si è già passata una soglia, quando si è vissuto abbastanza da sapere che niente è definitivo, che tutto può essere guardato da un’altra angolatura.
Aristotele, nell’Etica Nicomachea, parla della phronesis, il sapere pratico che si costruisce nel tempo, con l’esperienza, attraverso l’azione. Non è un sapere teorico, ma un’intelligenza del vivere che si affina solo esercitandosi nella realtà. Ecco perché la formazione non finisce mai: perché ogni giorno ci chiama a essere più attenti, più capaci, più umani.
(cfr. Aristotele, "Etica Nicomachea", VI, 5-13)
La formazione continua è, in fondo, un modo per restare fedeli a quel movimento originario del pensiero: la voglia di capire, di trasformarsi, di esserci davvero.
E questo, oggi più che mai, è un gesto radicale.
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Counseling e pratiche filosofiche, formazione artistica, educazione permanente.
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